Se andate ai Musei Capitolini non perdete la stupenda Pinacoteca, piena di opere d’arte prestigiose come questa tela del Rubens, databile tra il 1615 ed il 1616 e rappresentante la leggenda di Romolo e Remo. Dunque si comprende come convenga visitare anche questa sezione dei Musei Capitolini, i quali non ospitano solo manufatti archeologici ma anche meraviglie di un'arte più recente.

Si prenda ad esempio questo quadro del Rubens, il quale in una singola opera possiamo "vedere" il mito fondativo di Roma, l’atto che poi portò alla nascita dell’Urbe. Partiamo da un presupposto: questo episodio ci viene narrato da numerosi storici romani, da Plutarco a Varrone. Alcuni dettagli cambiano, ma la storia è sempre quella. Peccato che, ovviamente, dobbiamo ricordarci sempre che si tratta di un mito o, meglio, di una vera e propria leggenda. Il valore della storia, però, non cambia minimamente, sia che tratta di realtà che di pura fantasia. Dopotutto Tito Livio stesso scrisse: "Credo comunque che rientrassero in un disegno del destino tanto la nascita di una simile città quanto l'inizio della più grande potenza del mondo dopo quella degli Dei". Era la volontà delle divinità, per questo tutta la storia sembra progredire linearmente sino alla conclusione più scontata:  la fondazione di Roma. E’ comunque interessante come, fondamentalmente, tutti i protagonisti principali dell’episodio siano qui, inseriti dal Rubens in quell’ambiente bucolico e naturale che fa da sfondo a tutta la vicenda. Siamo in un ambiente silvano e selvaggio, dove tra le vallate dei colli dove sorgerà Roma vi erano zone paludose e dove la natura cresceva rigogliosa ed incontaminata. Nell’opera pittorica si osservano i due gemellini e la famosissima lupa, con sullo sfondo la figura del pastore Faustolo che li scoprì, e sulla sinistra quell’uomo anziano e muscoloso rappresentante il Tevere con una donna, la celeberrima Rea Silvia, madre dei gemelli. Ma conoscete la leggenda?

Tutto comincia ad Alba Longa, la mitica città fondata da Ascanio, figlio di Enea di Troia. Dopo 30 generazioni il Re di Alba Longa divenne Amulio, che aveva usurpato il trono a suo fratello Numitore. Nella sua incessante ricerca del potere, e per avere le spalle coperte, Amulio fece uccidere i due figli maschi del fratello, costringendo invece sua nipote, Rea Silvia, a diventare una sacerdotessa vestale. Tra le prerogative delle Vestali (che però in teoria comparvero per la prima volta solo con il secondo Re di Roma, quindi dopo la vicenda che vi sto narrando), vi era la stretta e sacra verginità. In questo modo Rea Silvia non avrebbe mai potuto avere alcun rapporto sessuale, evitando dunque che Amulio potesse ritrovarsi con degli eredi al trono che avrebbero potuto dargli fastidio. Ma Rea Silvia, nonostante tutto, rimase in cinta, dando la "colpa" a Marte. Sarebbe stato Lui a soggiogare le mente della povera donna mortale, portandola ad avere un rapporto sessuale molto, ma molto particolare. Si racconta, infatti, che l’amplesso divino si consumò non appena il Dio della Guerra (inizialmente Dio della fertilità per i primi romani), apparve sotto forma di enorme fallo. Qualcosa a cui Rea Silvia non poteva certo resistere... Scoperto l’increscioso fatto, Amulio fece uccidere Rea Silvia ed ordinò a due schiavi di abbandonare i due gemellini, nati dall’amore tra Marte e Rea Silvia, in una cesta, lasciando alle acque del Tevere il destino dei suoi figli semi divini (vi ricorda qualcosa questa vicenda? Pensate a Mosè...). Miracolosamente, ad un certo punto, le acque del Tevere si calmarono, divenendo placide e quiete, permettendo così alla cesta con i due gemelli di appoggiarsi dolcemente sulla riva del fiume, all’altezza di una sua ansa o, secondo alcuni, di una pozza d’acqua che prese poi il nome di Cermalus. Secondo altre fonti, in realtà, la cesta fu trasportata dalle acque del Tevere fino ad una grotta che si apriva lungo una delle pendici del Palatino: la grotta prese il nome di Lupercale E qui entra in gioco l’altra grande protagonista di tutta la vicenda: la lupa. Si narra infatti che questo animale selvatico, in cerca di cibo, discese lungo il declivio del Palatino, trovando i due gemellini. Narra Livio: "Tutt'ora è viva la tradizione orale secondo la quale, quando l'acqua bassa lasciò in secco la cesta galleggiante nella quale erano stati abbandonati i bambini, una lupa assetata proveniente dai monti dei dintorni deviò la sua corsa in direzione del loro vagito e, accucciatasi, offrì loro il suo latte". Interessante notare, intanto, come Tito Livio si premunisca facendo presente che sta descrivendo una tradizione orale, quindi passabile di elementi non propriamente veritieri. Comunque sia ai Musei Capitolini, tra l'altro, è esposta la celebre Lupa Capitolina, un manufatto bronzeo che rappresenta, tangibilmente, ciò di cui sto scrivendo qui.

E fu in quel momento che la lupa, andando contro il suo stesso istinto, cominciò ad allattare i due piccini. La lupa, guarda caso, era anche un animale sacro proprio a Marte. Secondo alcune fonti, oltre alla lupa dovremmo annoverare anche un picchio, altro animale sacro a Marte, che si premunì di portare del cibo ai due poveri gemellini. Dopo poco sopraggiunse il pastore Faustolo che, vista la scena e senza alcuna paura, prese i due gemelli portandoli a casa sua ed allevandoli come sua figli. Nel quadro del Rubens c’è anche un’altra figura di spicco di tutto il mito: Acca Larenzia, la moglie del pastore Faustolo. Come sempre capita quando si tratta di figure mitiche o leggendarie, ancora oggi non è ben chiaro quale potrebbe essere la simbologia dietro la figura di Acca Larenzia. Secondo alcuni in realtà la lupa sarebbe proprio Acca Larenzia che, più che una pia moglie, sarebbe stata una prostituta, che usava lavorare nei cosiddetti lupanari. Ovviamente, in questo caso, si capisce come tutto il mito sarebbe una vera invenzione, poiché certamente non esistevano, nell’epoca arcaica in cui la vicenda di Romolo e Remo avrebbe avuto luogo, dei lupanari veri e proprio, dei bordelli organizzati e gestiti come siamo abituati a pensare quando pensiamo agli esempi che abbiamo a Pompei. A parte questo, comunque, si capisce bene la forza simbolica di quest’opera del Rubens: Roma è destinata a crescere, i suoi fondatori sono destinati a sopravvivere, uomini e fiumi, come nel caso del Tevere, devono concorrere per volontà divina all’origine della città che avrebbe governato il mondo antico. Affascinante, non c’è che dire.