Sembrano meri blocchi di pietra messi una sopra l’altro, ed inseriti quasi melanconicamente in un angolino di un museo. Ma qui siamo dentro i Musei Capitolini, mentre questi semplici blocchi rappresentano ciò che rimane del centro religioso e nevralgico di Roma, sin da quando era un piccolo regno abbarbicato sui Sette Colli e fino allo sterminato Impero. Sono le fondamenta del Tempio di Giove Capitolino, definito anche di Giove Ottimo Massimo, che sorgeva sul Capitolium, una delle due alture che compongono il Colle Capitolino.

Fondato, secondo la tradizione e la datazione, dal Re di origini etrusche Tarquinio Prisco alla fine del VI secolo a.C., sarebbe stato poi portato a termine dall’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo. E’ curioso come quest’ultimo, il cui soprannome la dice lunga su come è stato dipinto nel corso della storia, fu inviso dai cittadini romani anche per gli enormi costi di cui questo tempio aveva bisogno. Non solo poiché, ironia della sorte, il Tempio di Giove Capitolino fu inaugurato da Marco Orazio Pulvillo nel 509 a.C., uno dei primissimi consoli della Repubblica di Roma sorta dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo. Il tempio misurava 53X62 metri circa, ed era periptero sine postico (cioè era circondato se tre lati da colonne tranne il retro, chiuso da un muro). Un edificio rinnovato in più di un'occasione, distrutto più volte da incendi e saccheggi, per poi vedere le sue parti riutilizzate nel corso dei secoli e per vari scopi. Flaminio Vacca, scultore del XVI secolo, ad esempio scrisse: "Sotto la Rupe Tarpea si trovano diverse colonne di marmo pentelico. I loro capitelli sono così enormi [...] altri furono usati da Vincenzo De Rossi per scolpire i profeti e le altre statue che adornano la Cappella Cesi nella chiesa di Santa Maria della Pace".

Purtoppo non sappiamo bene come doveva apparire il tempio originale, né quali decorazioni avesse, sebbene in qualche caso delle tracce, soprattutto letterarie, ci permettono di immaginare qualcosa. Sappiamo ad esempio che il tempio era sormontato da una quadriga in terracotta proveniente dallo studio di Vulca, dai quali forse provengono anche gli acroteri esposti nel Museo Etrusco di Villa Giulia (clicca qui per ulteriori informazioni). Ed abbiamo infine traccia del nome di uno scultore che lavorò per il Tempio di Giove Capitolino, tale Apollonios, un ateniese che forse è lo stesso che scolpì il famoso Torso del Belvedere esposto ai Musei Vaticani. Il tempio, a dispetto del nome, non era dedicato solo a Giove ma alla cosiddetta Triade Capitolina: Giove, appunto, Giunone e Minerva. Motivo? Una semplice assimilazione culturale portato dall’incontro tra la cultura e tradizione etrusca e quella romana. La prima, dopotutto, era più matura rispetto a quella dell’Urbe, e quando gli ultimi tre Re della Città Eterna, di origini etrusche, governarono la città è chiaro che portarono molto del loro.

Ma non finisce qui poiché, in un certo senso, il Tempio di Giove Capitolino rappresenta qualcosa di più importante: la "romanizzazione" di Giove, che fu assunto dai Romani non solo come Padre degli Dei in cui loro credevano, ma anche come protettore e, in un certo qual modo, sostenitore di Roma. La città che divenne la Caput Mundi, insomma, si era scelta il suo leader carismatico in cielo, colui che tutti avrebbero temuto e rispettato. I fulmini di Giove, attorcigliati, fanno da trespolo all’aquila portata sempre come un simbolo dai legionari di Roma, in tutte le terre calcate dai soldati romani. Non è un caso, dopotutto, che il Tempio di Giove Capitolino pare fosse la risposta romana a Iuppiter Latialis (Giove Laziale), il tempio dedicato al Padre degli Dei che sorgeva sulla sommità di Monte Cavo (Mons Albanus in origine), situato a qualche chilometro di distanza da Roma. Quest’ultimo santuario era il punto di riferimento per tutti i popoli latini, che i Romani combatterono aspramente per la supremazia della regione, in uno spostamento del centro religioso da un luogo alla sommità del Colle Capitolino perpetrato, in favore dei Romani, dai Re Etruschi. Un modo come un altro, dunque, anche per incamerare e fare proprio non solo un territorio, ma anche una divinità. A ben guardare, probabilmente non è Roma ad esser rimasta all’ombra del grande Giove, ma il contrario...