Alle Terme di Diocleziano troviamo, tra le altre opere, un busto marmoreo di Lucio Vero (imperatore in diarchia, e per alcuni anni, con Marco Aurelio nella seconda metà del II secolo d.C.), scolpito in veste di Arvale. Bellissimo è vedere come un "semplice" manufatto possa, però, spalancare una porta su vasto mondo sconosciuto. E qui alle Terme di Diocleziano anche questo è possibile. Un'area museale che vi consiglio di visitare per le numerose sorprese che avrete davanti ai vostri occhi, un luogo al di fuori dei circuiti turistici classici che io, come guida turistica locale, suggerisco vivamente. Ma ora, in merito al ritratto in marmo oggetto di questo articolo, la domanda che ci si pone è la seguente: chi erano gli Arvali?
Partiamo dal presupposto che a Roma, sin dalla sua fondazione, esistevano vari collegi sacerdotali, e cioè una serie di gruppi cultuali (una sorta di associazioni), dedite a specifiche funzioni religiose. Gli Arvali, in particolare, erano i seguaci della Dea Cerere, divinità delle messi, del grano e dell'agricoltura in generale. In origine tali sacerdoti erano dediti al culto della Dea Dia, la versione arcaica, se possiamo dire così, della più tarda Cerere. Secondo la tradizione, tale collegio sacerdotale fu fondato proprio da Romolo o, più probabilmente, dal secondo re di Roma, Numa Pompilio. Per quanto riguarda Romolo, figura più leggendaria e mitica che reale, ce ne parla Plinio il Vecchio che, rifacendosi a questa tradizione, scrisse nella sua Naturalis Historia: "Romolo per primo istituì i sacerdoti Arvali e chiamò se stesso dodicesimo fratello tra quelli generati da Acca Larenzia, sua nutrice", dando tra le altre cose l'indicazione di come i sacerdoti si chiamassero fratres tra loro, fratelli appunto. Probabilmente dobbiamo al secondo re di Roma, Numa Pompilio, l'ideazione e la creazione di questo ordine sacerdotale. Dopotutto, secondo la tradizione, Numa Pompilio fu un sovrano pacifico che si dedicò a gettare le fondamenta delle istituzioni e della vita sociale e religiosa dell'Urbe antica (fermo restando che dobbiamo prendere sempre tutto con le pinze tutto ciò che gli storici romani scrivevano riguardo le origini di Roma, episodi avvenuti secoli prima). Il secondo re di Roma, tra l'altro, era considerato una sorta di mago/stregone, e tra le altre cose fondò il culto delle Vestali. Un Numa Pompilio che, dunque, sarebbe il candidato perfetto come ideatore dell'ordine degli Arvali (dopotutto Tito Livio scrisse che Numa Pompilio "giovò alla città non meno di Romolo. Infatti fissò leggi e istituzioni per i Romani (...)").
Gli Arvali, comunque, erano dodici sacerdoti, scelti tra le famiglie più ricche ed in vista della società romana. Un grande onore e, di conseguenza, anche un riconoscimento sociale che elevò le famiglie prescelte sino alle alte sfere della nobiltà romana. Dodici sacerdoti come i dodici mesi dell'anno (a partire dalla riforma del calendario redatta proprio da Numa Pompilio). Tra i riti che svolgevano, ce n'era uno utile a santificare gli arva (campi da lavorare): giravano attorno al campo in questione, cantando carmi e dicendo varie litanie. Secondo una tradizione, inoltre, pervenutaci da Plinio il Vecchio, i primi Arvali della storia sarebbero stati, per volere di Romolo, i dodici figli di Faustolo, il pastore che trovò Romolo e Remo ancora infanti, e che li curò e li crebbe. Siamo sempre in un contesto in cui si cerca di mitizzare ogni aspetto della vita degli antichi Romani, aspetti che toccano anche la sfera religiosa, come in questo caso. Tipico degli storici che vissero nella tarda età repubblicana o nella prima parte del periodo imperiale fu, infatti, il tentativo di trovare delle origini mitiche e leggendarie, che affondavano le radici nell'arcaico passato dell'Urbe. Questo busto in marmo, qui alle Terme di Diocleziano, in qualche modo ci ricorda tutto ciò.
Anche in questo caso, dunque, possiamo capire lo stretto contatto e relazione che vi era tra gli Arvali e la terra, che un continuo sostentamento doveva dare ai Romani. In questo busto marmoreo, Lucio Vero voleva sicuramente associare la sua figura al tema dell'abbondanza della natura, e quindi della rinascita di essa e di Roma stessa. Inoltre, voleva farsi raffigurare come depositario degli antichi saperi e culti religiosi, che facevano da base alla cultura della romanità. L'avere il capo coperto dal mantello era tipico dei sacerdoti, che si velavano la testa soprattutto nell'atto del sacrificio rituale. Tutto ciò rappresenta un motivo in più, dunque, per visitare la collezione esposta alle Terme di Diocleziano qui a Roma, ricordando come siamo di fronte ad un'operazione di riutilizzo di spazi antichi utilizzati, oggi, per ospitare un museo davvero eccezionale.